Cercas racconta la Guerra Civile spagnola, intrecciandola alla storia della sua famiglia

di Redazione Il Libraio | 19.04.2017

Javier Cercas, tra i più affermati autori spagnoli contemporanei, torna nelle librerie con "Il sovrano delle ombre", un romanzo che indaga lo storia familiare dell'autore e che si intreccia con il passato della Spagna... - Su ilLibraio.it un capitolo del libro


Arriva nelle librerie Il sovrano delle ombre, il nuovo romanzo di Javier Cercas edito da Guanda, un libro che indaga la storia personale della famiglia del grande autore, e si intreccia alle vicende storiche della Guerra Civile spagnola, mantenendosi in quel filone letterario di recupero della memoria storica a cui appartengono diversi altri romanzi di Cercas.

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Il romanzo narra la storia di un ragazzo che nel 1936, allo scoppio della Guerra Civile spagnola, si arruola, ancora giovanissimo, nell’esercito franchista; dopo due anni di guerra trova la morte nella battaglia dell’Ebro, la battaglia più lunga e sanguinosa del conflitto, combattuta tra il luglio e il novembre del 1938.

Quella vita stroncata prima del tempo, quel ragazzo costretto troppo presto a scegliere da che parte stare è il protagonista del romanzo, un eroe misterioso e poliedrico, il prozio materno di Javier Cercas. Docente di letteratura spagnola all’Università di Gerona e collaboratore di El País, l’autore di Soldati di Salamina torna a scavare nella storia della Spagna, alla ricerca di risposte che lo toccano personalmente, costruendo un romanzo che non fugge l’inevitabile ambiguità della ricostruzione storica, ma la abbraccia, riconoscendo che non sono le “parti” ad essere sbagliate, ma la guerra stessa.

Per gentile concessione dell’editore, sul ilLibraio.it un estratto del romanzo:

Si chiamava Manuel Mena e morì a diciannove anni nella battaglia dell’Ebro. Accadde il 21 settembre 1938, verso la fine della guerra civile, in un paese catalano chiamato Bot. Era un franchista entusiasta, o almeno un entusiasta falangista, o almeno lo era stato all’inizio della guerra: a quell’epoca si era arruolato nella 3a Bandera della Falange di Cáceres, e l’anno successivo, appena ottenuto il grado di sottotenente di complemento, venne destinato al Primer Tabor de Tiradores di Ifni, un’unità d’assalto appartenente al corpo dei Regulares. Dodici mesi più tardi morì in combattimento, e per anni fu l’eroe ufficiale della mia famiglia.

Era uno zio paterno di mia madre, la quale fin da quando ero bambino mi ha raccontato innumerevoli volte la sua storia, o piuttosto la sua storia e la sua leggenda, cosicché prima di diventare scrittore io pensavo che prima o poi avrei dovuto scrivere un libro su di lui. Lo esclusi proprio quando diventai uno scrittore; la ragione è che sentivo che Manuel Mena era la cifra esatta dell’eredità più onerosa della mia famiglia, e che raccontare la sua storia non equivaleva soltanto a farmi carico del suo passato politico, ma anche del passato politico di tutta la mia famiglia, che era il passato che più mi imbarazzava; non me ne volevo far carico, non vedevo alcuna necessità di farlo, e tanto meno di spiattellarlo in un libro: mi bastava dover imparare a conviverci. Del resto, non avrei nemmeno saputo come mettermi a raccontare quella storia: avrei dovuto attenermi rigidamente alla realtà, alla verità dei fatti, supponendo che fosse possibile e che lo scorrere del tempo non avesse aperto nella storia di Manuel Mena dei vuoti impossibili da colmare? Avrei dovuto mescolare la realtà e la finzione, per riempire con la seconda i buchi lasciati dalla prima? Oppure avrei dovuto inventare una finzione a partire dalla realtà, anche se tutti avrebbero creduto che fosse veritiera, o per fare in modo che tutti lo credessero? Non ne avevo idea, e questa ignoranza sulla forma mi sembrava la ratifica del mio assunto di fondo: non dovevo scrivere la storia di Manuel Mena.

Alcuni anni fa, però, quell’antico rifiuto sembrò entrare in crisi. In quel periodo, mi ero già lasciato da tempo alle spalle la giovinezza, ero sposato e avevo un figlio; la mia famiglia non attraversava un gran momento: mio padre era morto dopo una lunga malattia e mia madre faceva a malapena fronte all’ingrata condizione di vedova dopo cinquant’anni di matrimonio. La morte di mio padre aveva accentuato la naturale propensione di mia madre a un fatalismo melodrammatico, rassegnato e catastrofista («Figlio mio» era una delle sue frasi più ricorrenti, «che Dio non ci riservi tutte le disgrazie che siamo capaci di sopportare»), e una mattina la investì un’auto mentre attraversava sulle strisce pedonali; l’incidente non rivestì un’eccessiva gravità, però mia madre si prese un bello spavento e si vide costretta a rimanere per diverse settimane in poltrona con il corpo tatuato di lividi. Le mie sorelle e io la incoraggiavamo a uscire, la portavamo a pranzo fuori, a passeggio e in parrocchia ad ascoltare la messa. Mi è rimasta impressa la prima volta che l’ho portata in chiesa. Avevamo percorso al rallentatore i cento metri che separano casa sua dalla parrocchia di Sant Salvador e, quando stavamo per attraversare sulle strisce che portano all’ingresso della chiesa, mi strinse il braccio.

«Figlio mio» mi sussurrò, «beati coloro che credono nelle strisce pedonali, perché vedranno Dio. Io sono stata lì lì per farlo.»

Durante quella convalescenza l’andai a trovare più spesso del solito; molte volte rimanevo perfino a dormire a casa sua, con mia moglie e mio figlio. Arrivavamo tutti e tre il venerdì pomeriggio o il sabato mattina e ci installavamo lì finché la domenica sera non tornavamo a Barcellona. Durante il giorno parlavamo o leggevamo, e la sera vedevamo film e programmi televisivi, soprattutto il Grande Fratello, un reality che a mia madre e a me piaceva moltissimo. Naturalmente, parlavamo di Ibahernando, il paese dell’Estremadura da cui negli anni Sessanta i miei genitori erano emigrati in Catalogna, così come in quel periodo avevano fatto tanti estremegni. Ho detto «naturalmente» e capisco che dovrei spiegare perché l’ho detto; è facile: perché nella vita di mia madre non c’è evento più determinante dell’emigrazione. Ho detto che nella vita di mia madre non c’è evento più determinante dell’emigrazione e capisco che dovrei spiegare anche stavolta perché l’ho detto; e non è più così facile. Quasi vent’anni fa cercai di spiegarlo a un amico dicendogli che l’emigrazione aveva significato che da un giorno all’altro mia madre aveva smesso di essere una figlia privilegiata di una famiglia patrizia in un paese dell’Estremadura, dove era tutto, per diventare poco più che una proletaria o poco meno che una piccolo-borghese carica di figli in una città catalana, dove non era nulla. Non appena l’ebbi formulata, la risposta mi sembrò valida, ma insufficiente, così mi misi a scrivere un articolo intitolato Gli innocenti, che anche adesso continua a essere la spiegazione migliore che sono in grado di fornire su questa faccenda; venne pubblicato il 28 dicembre del 1999, giorno degli Innocenti (che equivale, per gli scherzi che si fanno in quella giornata, al primo aprile italiano) e trentatreesimo anniversario dell’arrivo di mia madre a Gerona. Dice: «La prima volta che ho visto Gerona è stato su una mappa. Mia madre, che allora era molto giovane, indicò un punto remoto sulla carta e mi disse che mio padre si trovava lì. Mesi dopo facemmo le valigie. Fu un viaggio lunghissimo, e alla fine ci ritrovammo in una stazione di paese che cadeva a pezzi, circondata da palazzi penosi avvolti in una luce mortuaria e maltrattata dalla pioggia senza compassione di dicembre. Era la città più triste del mondo. Mio padre, che ci stava aspettando, ci portò a fare la prima colazione e ci disse che in quella città impossibile si parlava una lingua diversa dalla nostra, poi mi insegnò la prima frase in catalano che pronunciai: ‘M’agrada molt anar al col.legi’, mi piace molto andare a scuola. Poi ci incastrammo come potemmo nella Citroën 2CV di mio padre e, mentre ci dirigevamo verso la nostra nuova casa attraverso la desolazione ostile di quella città estranea, sono sicuro che mia madre pensò e non disse una frase che pensò e disse ogni volta che arrivava l’anniversario del giorno in cui avevamo fatto le valigie: ‘Bello scherzetto!’ Era il giorno degli Innocenti di trentatré anni fa».

(Continua in libreria…)

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Fonte: www.illibraio.it


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