Helena Janeczek e “Il tempo degli imprevisti”: l’eredità del ‘900 nell’unicità di esistenze dimenticate

di | 21.04.2024

Con "Il tempo degli imprevisti" la scrittrice Helena Janeczek (Premio Strega 2018) torna a indagare la storia del Novecento attraverso quattro storie incentrate su esistenze dimenticate: nel magma di un'Italia alle prese con la definizione di se stessa, le vicende dei protagonisti dimostrano la possibilità nel tempo di continuare a raccogliere l'eredità irrisolta di un'epoca dalle inesauribili sfaccettature...


Helena Janeczek è in libreria con Il tempo degli imprevisti (Guanda), un ritorno atteso da parte della vincitrice del Premio Strega 2018 con il bestseller La ragazza con la Leica (uscito per Guanda nel 2017), nonché del Premio Bagutta, oltre che finalista al Premio Campiello.

Con Il tempo degli imprevisti la scrittrice, che è nata a Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca e vive in Italia da oltre trent’anni, torna alla narrazione di matrice storica, in cui il primo Novecento, con tutti i suoi fermenti e contraddizioni sociali, viene messo sotto la lente di ingrandimento, questa volta con una tetralogia di storie disposte secondo un ordine cronologico.

il tempo degli imprevisti di helena janeczek

In apertura, in Le sorelle Zanetta, incontriamo Abigaille, protagonista assoluta e dimenticata del socialismo italiano e milanese di inizio secolo.

Di professione maestra, dedicò la sua vita a lottare per il movimento operaio e per i diritti delle donne, figura romantica e irriducibile, mai disposta a trattare le sue posizioni di pacifista, antifascista e rivoluzionaria a favore di un compromesso politico, fino a scontrarsi anche con Filippo Turati e Anna Kuliscioff.

La narrazione si sviluppa attraverso forme testuali differenti, che comprendono lettere, brani tratti da saggi, diari personali e articoli di giornale, ottenendo un montaggio delle parti che conferisce profondità storica e psicologica ad Abigaille e al contesto in cui ha operato.

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Con Una stagione di cura ci troviamo a Merano, da poco annessa all’Italia, dove il dottor K., giunto in città in seguito a una brutta malattia e in cura presso il dottor Kohn, è convinto che qualcuno legga la corrispondenza che intrattiene con la giovane Milena.

Forma e ritmo sono ottenuti dalla commistione di voci e punti di osservazione, ora del protagonista (che altri non è che Franz Kafka), ora degli altri personaggi coinvolti, fra medici, locandiere, infermiere e persino una spia.

L’ultimo autunno è forse il più lirico e intimistico dei quattro testi. La vicenda prende spunto dalla vita di una figura storica collaterale, Mary de Rachelwitz, figlia di Ezra Pound e della violinista Olga Rudge, inizialmente non riconosciuta dal padre e affidata a una famiglia di contadini della Val Pusteria.

Anche in questo caso, come nel testo precedente, l’autrice non svela apertamente le carte della verità storica, pur non nascondendola, così da mantenere e anzi potenziare la dimensione favolistico-surreale ottenuta dalla ectoplasmatica voce narrante.

Quest’ultima, la cui natura e identità viene svelata solo all’ultimo, si rivolge in seconda persona a lei, sua sorella di latte, senza farne il nome, e ne racconta la vita fin dalla nascita, ora con un tono protettivo, ora tradendo un poco di invidia per la vita cui è stata destinata la sorella nell’affascinante città mercantile di Venezia, molto differente dalla propria…

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L’ultima parte, che dà il titolo al libro, ruota intorno al giovane Alberto (Otto-Albert Hirschman, futuro economista, allievo di Pierpaolo Luzzatto Fegiz), studente universitario di origini tedesche, trasferitosi da poco a Trieste con la sorella Ursula, che ha sposato il professore di italiano e storia dell’istituto magistrale (Eugenio Colorni).

La vicenda viene presentata al lettore attraverso gli occhi, le voci e i pettegolezzi degli avventori dei bar della città, che osservano e giudicano, suppongono e immaginano quale sia la natura, l’indole di quel ragazzo che “aspetta il professore davanti alla scuola”.

Sono i pregiudizi misti a un fondo di razzismo e alla tipica curiosità, figlia della noia, che animano e alimentano il chiacchiericcio a Trieste che, in quanto città di frontiera e di mare, è per sua natura esposta al presunto pericolo dello straniero. Anche in questo caso la storia diventa dunque un pretesto per (ri)portare alla luce vite di uomini e donne dimenticate, e viceversa.

Ma, come già nella Ragazza con la Leica, l’autrice lascia che la storia con la “s” maiuscola funga da sfondo – pur plastico e vivo per l’influenza che ha su personaggi e vicende –, così anche le vicende qui raccontate, recuperate dalle ceneri del tempo, sono incentrate su figure dimenticate dalle cronache più conosciute, dalle “vulgate” dei nostri anni.

Copertina de La ragazza con la Leica di Helena Janeczek

La falsariga del precedente romanzo su cui l’autrice delinea questo libro mette in luce da un lato una coerenza di intenti e di ideali nel messaggio affidato alla propria opera letteraria, dall’altro una sete di sperimentazione, e una sempre maggiore e lucida consapevolezza degli strumenti adottati.

E ciò si registra anche nello stile, che si presenta a volte accelerato ed ellittico, altre volte piano e lineare, ora vicino all’oralità, ora letterario; ma anche nel montaggio delle voci in scena, orchestrando narrazioni in prima o in seconda persona, condotte da collettività impersonali o tramite il dialogo analogico fra documenti storici posti in successione.

L’autrice trova per ciascuna delle quattro parti del libro una caratterizzazione e una veste linguistica differente, riuscendo a far emergere sia la singola narrazione sia l’insieme organico dei testi. L’eterogeneità di luoghi, personaggi e vicende rappresenta la necessaria trasposizione in materia narrativa della melodia disarmonica che informa la storia di quegli anni.

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Non è un caso dunque che Janeczek costruisca un libro come Il tempo degli imprevisti, in cui frammentazione ed eterogeneità di lingua, testi, ambientazione e ritmo fanno da contraltare a una struttura e a un messaggio compatti, che restituiscono un disegno chiaro e univoco.

Tutte le storie sono infatti ambientate in luoghi in cui convivono, si incontrano e si scontrano uomini e donne che parlano più lingue (o lingue diverse), che vengono da altri Paesi, oppure locali che diffidano dello straniero, giudicandolo in base ai preconcetti sociali, geografici o politici dell’epoca.

In sostanza, ogni tempo è “il tempo degli imprevisti”: se nulla è mai prevedibile, tutto è sempre imprevisto, e l’uomo, incapace per natura di giudicare con la sicurezza della conoscenza, può solo affidarsi a una prudenza filantropica e all’osservazione della storia.

La prudenza che invita all’adozione di un occhio critico, ma anche benevolo, la prudenza che suggerisce la fiducia nell’uomo, ma anche la coerenza tenace ai propri ideali, pure quando il proprio tempo va nella direzione opposta.

Come insegna la vicenda di Abigaille Zanetta – femminista in una società patriarcale, pacifista in tempo di guerra, antifascista durante il Ventennio –, è il singolo che determina il destino, proprio, e di tutti, al di là di ogni pregiudizio contingenziale e di ogni diversità anticonformistica.

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Fonte: www.illibraio.it


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