“I Canti d’amore di Wood Place”: nei campi di cotone, le radici di un albero genealogico

di Stefano Risso | 18.09.2022

"I canti d’amore di Wood Place", romanzo d’esordio della poetessa e attivista nera Honorée Fanonne Jeffers, è una saga generazionale che restituisce voce e narrazione a quelle moltitudini di persone che, nel corso della Storia, hanno udito i propri “canti” ammutolire di fronte alle barbarie della discriminazione. Un grande libro che, come già "Il Colore Viola" di Alice Walker o "Amatissima" di Toni Morrison, porta avanti importanti riflessioni su concetti quali l’appropriazione culturale, il femminismo nero o il razzismo color-struck


Sotto il titolo italiano I canti d’amore di Wood Place, traduzione di Alba Bariffi, Guanda presenta il romanzo d’esordio della poetessa e attivista nera Honorée Fanonne Jeffers, una saga generazionale e di ampio respiro che, nel ripercorrere gli episodi salienti della diaspora afro-amerindiana (dall’epoca del colonialismo britannico, 1733, sino alla candidatura di Obama alle presidenziali del 2007) restituisce voce e narrazione a quelle moltitudini di persone – e tribù, e popolazioni – che, nel corso della Storia, hanno udito i propri “canti” ammutolire di fronte alle barbarie della discriminazione (e della sua declinazione colorista, ovverosia quella particolare forma di xenofobia esercitata nei confronti di individui con una carnagione scura da parte di persone della stessa razza, ma con la pelle più chiara).

“Noi siamo la terra, il suolo. La lingua che parla e inciampa sui nomi dei morti mentre osa raccontare queste storie della stirpe di una donna. La sua gente e il suo terreno, i suoi alberi, la sua acqua”, così ha inizio il lungo viaggio della stirpe Garfield – e ancor prima quello dei suoi antenati Dylan Cornell e Nila del Vento – nella finzionale cittadina di Chicasetta, un villaggio rurale nel cuore della Georgia un tempo patria dei nativi Creek e poi piantagione di Wood Place, durante gli anni dello schiavismo.

Honorée Fanonne Jeffers nella foto di Sydney A. Foster
Honorée Fanonne Jeffers nella foto di Sydney A. Foster

Lì, dove ancora vivono i loro parenti di secondo grado (fra i quali l’amorevole Nonna Rose e l’irresistibile Zio Root) la protagonista Ailey e le sue sorelle trascorrono le estati più felici della propria infanzia, circondate da una comunità a prevalenza nera tanto diversa dal contesto urbano in cui sono cresciute e che, forse per questo, ogni volta le accoglie con un senso di casa, il più famigliare.

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Ma l’idillio durerà ben poco; sopraffatte da un segreto inconfessabile che ne sconvolgerà le rispettive esistenze, ciascuna delle ragazze reagirà all’accaduto (che non sveliamo) in una maniera del tutto personale: e mentre la maggiore, Lydia, finirà per cedere alla spirale delle tossicodipendenze, e la secondogenita Coco lascerà la Georgia alla ricerca della propria identità, sarà la minore, Ailey, l’unica delle tre donne a rimanere radicata alle origini di Chicasetta e quivi, abbandonati gli studi in medicina, a impegnarsi con passione nella stesura di una tesi di dottorato sul riscatto di due ex schiave georgiane (Mrs Adeline Ruth Hutchinson Routledge e Judith Naomi Hutchinson) fuggite da Wood Place nel 1859 e poi fondatrici del prestigioso Routledge College, istituto femminile per l’istruzione delle giovani donne nere.

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Di come – e se – le sorti delle due pioniere siano poi intrecciate a quelle della famiglia Garfield, questo è tutto da scoprire; quel che è certo è che, nel raccogliere i materiali di archivio, Ailey spalancherà su Chicasetta un sipario di soprusi talmente difficili da sopportare (specie quelli perpetrati dal negriero Samuel Pinchard all’interno della “casetta sinistra”) che, oltre a lasciare sconvolti tutti noi alla lettura, contribuiranno a infondere nella protagonista quella rabbia womanista che le sarà necessaria per affrontare tanto le battaglie del vivere quotidiano – tipo le relazioni sessiste con i “fratelli” neri o le difficoltà di integrazione all’interno della società bianca – tanto quel grido di dolore che le sue sorelle, come altre prima di loro, sono state costrette a soffocare per anni, nel segreto del proprio silenzio.

Strutturata in una forma bipartita, che antepone ai capitoli ambientati nel presente i paragrafi storici dedicati al racconto degli antenati, The Love Songs of W.E.B. Du Bois (questo il nome originale dell’opera, in onore del più significativo esponente della letteratura afro-americana oltreché personaggio ricorrente all’interno del romanzo stesso) si innalza a grande opera della narrativa contemporanea, come già Il Colore Viola di Alice Walker o Amatissima di Toni Morrison negli anni ’80, arricchendo le tematiche tipiche della dimensione black a nuove e importanti riflessioni su concetti, qui veicolati con grazia ma altrimenti di difficile acquisizione, quali l’appropriazione culturale, il femminismo nero o il razzismo color-struck.

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Sono qui per parlare di molte tribù: i Cherokee, i Wolof, gli Akan, gli Yoruba. E le molte comunità che non so nominare”, dichiara la stessa autrice in epilogo di trattazione, dopo l’utile coda archivistica che ulteriormente chiarisce le finalità del testo, “sono qui per rendere grazie a coloro che sono venuti prima. Vivono dentro di me: la gente. Le persone. I loro canti”. Perché all’interno di ogni storia come questa, impossibile da dimenticare, sono racchiuse mille altre altre Storie, che non bisognerebbe mai dimenticare.

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Fonte: www.illibraio.it


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