La trilogia degli “scostati”

di Redazione Il Libraio | 19.01.2004

Conversazione con Paola Mastrocola autrice di Una barca nel bosco ISBN:8882463753


Un ragazzo un po’ particolare, a cui piace da pazzi il latino, convinto che lo studio gli serva per diventare qualcuno. Un ragazzo di talento, che viene da un’isola del sud, frequenta la scuola e poi l’università. Dieci anni della sua vita: i suoi incontri, la sua famiglia, il suo destino. È il protagonista di Una barca nel bosco, terzo romanzo di Paola Mastrocola. Ne abbiamo parlato con l’autrice.

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D. Con questo nuovo romanzo lei torna al tema della scuola. C’è inevitabilmente un retroterra di storia personale?

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R. Per me quello della scuola è un tema involontario: non lo scelgo mai, eppure me lo ritrovo sempre… tra i piedi. Ma io sono un’insegnante, c’è poco da fare. E la scuola è il mio “contatto” con la realtà. Vi trovo motivi di riflessione verso il mondo intero, di ispirazione, e soprattutto di rabbia, che mi serve molto per scrivere, è il mio vero “motore”. Evidentemente, dopo La gallina volante ci voleva un altro libro, questa volta dal punto di vista non più dell’insegnante ma dell’allievo. Un ragazzino che, avendo quindici anni, non giudica, non critica, non ironizza: può solo raccontare quello che vede e, semmai, dire implicitamente il suo inerme, sconsolato stupore.

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D. Gaspare, il protagonista di Una barca nel bosco, racconta dieci anni della sua vita, del suo processo di “sformazione”. È un personaggio che tocca corde tra comicità e malinconia, divertimento e disperazione. Da dove è spuntato?

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R. Se posso, vado sempre in vacanza su un’isola. Non vi si vive come da noi: le scuole, per esempio, non ci sono. Si arriva al massimo alle medie. Quindi, se qualcuno vuole fare il liceo, se ne deve andare. Gaspare nasce prima di tutto da qui: è un ragazzino bravo a scuola, gli piace studiare, ma è nato su un’isola, quindi deve trovarsi un liceo in una città. Ecco, mi piaceva un personaggio così. Che cosa lo muove, in quale scuola crede, che cosa si aspetta dagli studi? Mi sembrava una storia di cinquant’anni fa, quando la scuola offriva un progresso reale, intellettuale ma anche sociale. Mi serviva un personaggio così: faceva contrasto, uno spaventoso contrasto con tutti i ragazzini delle nostre città.

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D. Lei è riuscita a “parlare” il linguaggio dei ragazzi di oggi. A pensare con la loro testa. Frutto della sua esperienza, della sua capacità di sentire, della magia della scrittura?

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R. Era la sfida del libro: riuscire a parlare come un ragazzino. All’inizio è stata durissima. Gaspare parlava come me, sembrava una donna di quarant’anni e passa, un disastro. Ho dovuto riscrivere all’infinito. Era in realtà una doppia sfida, perché Gaspare non è un ragazzo come gli altri, non parla il linguaggio giovanile del gruppo. Quindi dovevo riuscire a dargli una voce giovane, ma anche una voce antica, da ragazzino spaesato in questi nostri tempi. Da “barca nel bosco”, appunto. Spero di esserci riuscita

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D. Nel romanzo c’è una visione cupa del destino individuale, dell’esistenza, una riflessione in fondo amara sulla solitudine, sulla sconfitta che tocca anche ai migliori. E tuttavia c’è sempre un tocco di leggerezza, di surreale, la capacità di vedere con una comprensione divertita le bizzarrie del vivere quotidiano.

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R. A questo nostro mondo non piace il merito. Chi è bravo si trova solo. Ma forse è sempre stato così: il talento è inspiegabile, quindi inaccettabile. Oggi però mi sembra che sia trascurato più che mai, se non addirittura osteggiato e disprezzato: oggi bisogna essere furbi, appartenere a un clan, saper tessere relazioni. E chi è bravo e basta? Ma credo che qualcosa ci sovrasti, chiamiamolo destino, sorte, caso, Dio… Qualcuno si salva. Io ho una visione profondamente religiosa della vita, non confessionale, ma religiosa. Credo in un disegno: nel libro infatti parlo di un Pantografo Gigante che ci disegna.

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D. Una domanda d’obbligo. È davvero tutto allo sfascio nella scuola di oggi ?

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R. Non la scuola, è la società a essere allo sfascio. La scuola la riflette soltanto. Non è questione di riforme sbagliate o giuste; né di gioventù sbagliata o giusta. Siamo tutti noi che non diamo più valore allo studio. I giovani lo sentono; quindi, perché mai dovrebbero studiare? E perché mai dovrebbero pensare? Pensare richiede tempo, concentrazione e… solitudine. A chi piace la solitudine?

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D. La scrittura. Le riesce facile, le costa fatica? Quando e come scrive? Riscrive sempre molto?

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R. La scrittura è il mio modo di stare al mondo, posso dire così? Mi riesce naturale, quindi facilissima. Soprattutto, è l’unico “luogo” in cui sto bene; tutto il resto mi mette a disagio. Quando scrivo, tutto miracolosamente va a posto, tutto è in ordine, tutto funziona. Però scrivere è anche riscrivere. In generale, ogni volta che riapro il computer, rileggo e riscrivo. A volte più, a volte meno. Diciamo che c’è una scrittura “numero 1” che viene da sé, facile, spontanea, quasi inconsapevole; e c’è una scrittura “numero 2” che invece è lavoro, ripensamento, rifacimento, anche tecnica. Ma nulla è mai faticoso o infelice.

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D. Ha un lettore privilegiato? Suo figlio, forse? A chi affida la sua prima lettura?

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R. No, mio figlio mai. Si è sempre rifiutato di leggere quel che scrivo. E io lo trovo giustissimo, sono contenta che prenda le distanze da sua madre. Il mio primissimo lettore è mio marito. Qualsiasi cosa io scriva, devo fargliela leggere: è una vera dipendenza. Per varie ragioni: primo, non è un letterato, però scrive libri anche lui; secondo, ha una mente matematica, quindi una lucidità che io non ho, mi trova tutti i punti “scuri”, cioè dove il pensiero non si è chiarito: diciamo che mi fa luce! Ma non basta: io ho una vera “rete” di primi lettori. La mia squadra di pre-lettori. Sono una decina, persone molto diverse tra loro, che perlopiù non si conoscono. Ma nessun letterato, nessuno scrittore. Mi piace che provengano da altri mondi. Ho un bisogno enorme di loro. Secondo me non si può scrivere senza farsi leggere. La scrittura e la lettura sono le due facce della stessa medaglia. Il lettore è assolutamente il co-autore. Ma nella prima fase della scrittura c’è bisogno che il lettore sia un po’ vicino all’autore, non proprio un perfetto sconosciuto: perché le prime letture sono ancora molto “dentro” l’autore. Voglio dire: l’autore dà il libro da leggere, lo dà “fuori”, ma non ancora del tutto, ha bisogno di una certa protezione “interna”, e quindi lo dà a persone molto vicine. E come un “uscire protetto”. In questa fase iniziale, e anche mediana, della scrittura, io sono molto influenzabile dalla mia squadra di pre-lettori.

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D. Quando si finisce di leggere un suo libro si ha la sensazione di aver trascorso ore gradevoli in compagnia di personaggi familiari, che tuttavia fanno cose singolari. Da dove viene questo suo occhio per la diversità, per il risvolto spiazzante dell’esistenza, per i cosiddetti “scarti” dalla normalità apparente?

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R. È vero, mi piacciono gli “scarti”. Tutte le deviazioni leggere, le digressioni, le stradicciole laterali, quelle che quasi nessuno prende. Adesso che ho scritto tre romanzi, mi verrebbe da chiamarla “la trilogia degli scostati”: persone che “si scostano” dalla via comune, ma solo di un passetto o due. Non mi piacciono i devianti, i folli a tutti i costi: ci ho sempre trovato un eccesso, una specie di eccessiva consapevolezza che sfocia inevitabilmente in autocompiacimento. Invece quel passetto o due che ci discosta dalla norma, ci salva. Diciamo… l’insegnante che alleva galline per farle volare, o la fotografa che aspetta ore su uno scoglio per fotografare il salto delle acciughe sull’acqua, o il giovane che sfonda il soffitto e i pavimenti della sua casa perché le piante sono cresciute… Cose strampalate ma non impossibili: un pelino sopra la norma. Solo così si può essere veramente rivoluzionari, eversivi e… seriamente pericolosi!

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Fonte: www.illibraio.it


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