“L’educazione fisica”: l’inno alla ribellione femminile di Rosario Villajos

di Cristiana Chiumenti | 08.03.2024

"L'educazione fisica" di Rosario Villajos è un romanzo senza tempo, tristemente attuale e universale insieme. Nel corpo di un’adolescente, Catalina, dà forma a un dolore femminile collettivo, a una paura diffusa. L'autrice parla alle donne ma parla anche agli uomini che vogliono ascoltare, perché non tutti sono lupi, perché forse c’è ancora qualcuno capace di dare un passaggio a una ragazza senza volerla sopraffare, abusare, annientare. Una storia di coraggio e ribellione, che ha vinto il premio Biblioteca Breve


Catalina ha sedici anni e sta tornando a casa sotto il sole cocente d’agosto, dopo aver passato il pomeriggio dalla sua migliore amica. È di fretta, vuole fare di tutto per arrivare in tempo per cena e rispettare il coprifuoco stabilito dai genitori. Potrebbe essere una giornata come tante altre, quasi banale, se non fosse per quel fatto accaduto poco prima a cui continua a ripensare. Quel bacio rubatole dal padre della sua migliore amica, durante la siesta pomeridiana.

L'educazione fisica di Rosario Villajos
L’educazione fisica, che nel 2023 ha vinto il premio Biblioteca Breve, è il primo romanzo di Villajos ad essere pubblicato in Italia

È così che si apre L’educazione fisica di Rosario Villajos, edito da Guanda nella traduzione di Roberta Arrigoni. È così che inizia il viaggio di Catalina: un ritorno verso casa, un nostos moderno, in autostop e lungo appena poche ore, scandito dagli orologi che dividono i capitoli del libro, durante il quale Catalina ripercorre le sue esperienze di bambina e di ragazza fino a quel momento, attraverso le cicatrici che porta dentro di sé e sul proprio corpo.

Perso l’ultimo autobus utile, Catalina decide di fare l’autostop. Si augura buona fortuna come se tornare a casa sana e salva fosse vincere un terno al lotto, scrive Villajos. Perché fare l’autostop è un’imprudenza molto grave per una ragazza, significa esporsi deliberatamente al pericolo, dare carta bianca a stupratori e assassini. Questo Catalina lo sa bene: sono mesi ormai che le televisioni spagnole parlano del delitto di Alcàsser, – la storia è ambientata a metà degli anni Novanta – di tre ragazze come lei torturate e uccise per un autostop come tanti altri. Ma la sua non è pura incoscienza, il suo è un intimo atto di ribellione a un’educazione familiare troppo rigida, a delle imposizioni sociali riservate unicamente alle donne che Catalina non comprende e non condivide.

[leggianche layout=”full” post-id=”1397286″]

I suoi genitori le hanno insegnato ad avere paura del mondo, perché può essere un luogo pericoloso. E allora Catalina si scherma dietro un’armatura adolescenziale fatta del grunge rabbioso dei Nirvana e di una felpa larga per nascondere le forme, il cappuccio tirato fin sopra la testa. Abita un corpo che percepisce come estraneo, in cui si sente goffa, inappropriata. Un corpo che cerca di nascondere dallo scrutinio dello sguardo maschile – del padre di Silvia, del professore di educazione fisica, dei compagni di scuola. E invece tutti guardano, giudicano, commentano come sei lei non ci fosse, come se fossero autorizzati.

Non sa bene perché, ma il corpo femminile crea turbamento negli adulti attorno a lei, specialmente negli uomini adulti. Ma se gli estranei lo osservano, lo desiderano, o si arrischiano a toccarlo senza neanche chiedere il permesso (e qui si perde il conto, dai coetanei, agli sconosciuti sull’autobus, all’uomo che le dà un passaggio verso casa), il padre di Catalina ne sembra addirittura spaventato, confuso. È un uomo turbato dai cambiamenti fisiologici della figlia al punto da diventare incapace persino di parlarle senza servirsi della moglie come intermediaria.

La madre, invece, con i suoi complessi e le sue battaglie alimentari, vittima e allo stesso tempo carnefice di quella stessa cultura patriarcale in cui Catalina si sente intrappolata, insegna alla figlia a nascondersi come aveva fatto lei, a stare al proprio posto, a non disturbare gli uomini con “cose da donne”, a sparecchiare la tavola e avere sempre diffidenza degli estranei, che tanto gli uomini vogliono una cosa soltanto. Però ambiguamente le ricorda, come un mantra “rispetta sempre tuo padre, rispetta tuo fratello”. Lui, Pablito, incarnazione di quello che Catalina non sarà mai: bambino, maschio. Libero.

Come si misura la libertà di un individuo? Catalina, ad esempio sa che “il mondo non ha per lei la stessa geografia che ha per suo fratello”, ogni volta che cammina da sola di notte si sente un po’ come gli eroi dei suoi romanzi preferiti, ma mentre quelli sono alle prese con fantastiche avventure, lei vuole solo tornare a casa senza essere violentata, senza “finire a pezzi in un canale”. È per questo che non indossa mai i tacchi alti e che in fondo allo zaino tiene sempre un cacciavite perché se succede, perché con le cose che si sentono. È gelosa degli uomini che, invece, sono liberi di abitare tutti gli spazi senza paura. Catalina è tutte le donne, senza restrizione di tempo e di luogo.

[leggianche layout=”full” post-id=”1445692″]

Solo in Italia, l’ultimo rapporto Istat sul Benessere Equo e Sostenibile (Bes) 2022 riporta che 1 donna su 2 ha paura di uscire da sola di sera.

Rosario Villajos lo ambienta negli anni Novanta, ma il suo è un romanzo senza tempo, tristemente attuale e universale insieme. Nel corpo di un’adolescente dà forma a un dolore collettivo e lo fa con una prosa misurata, essenziale, ma che con la sua semplicità va dritta al cuore del problema. Villajos parla alle donne ma parla anche agli uomini che vogliono ascoltare, perché non tutti gli uomini sono lupi, perché forse c’è ancora qualcuno capace di dare un passaggio a una ragazza senza volerla sopraffare, abusare, annientare.

[newsletter]

Fonte: www.illibraio.it


Commenti