La grandezza (e la complessità) della poesia di Vittorio Sereni

di Giuseppe Carrara | 12.12.2023

Vittorio Sereni (1913 – 1983), non c’è ormai dubbio, è stato uno dei più grandi poeti del Novecento italiano. E, al tempo stesso, uno dei più "difficili". La pubblicazione dell'edizione commentata di "Gli strumenti umani" conferma la complessità e l’estrema bellezza di questo libro, che uscì nel 1965, dopo quasi vent’anni di silenzio poetico, e che fotografa la prigionia dell’uomo. Come scrisse Eugenio Montale, Sereni è un poeta che “trova sempre più insopportabile la qualifica di poeta". Al tempo stesso, per l'autore di Luino, "poeta lacustre", ma anche poeta cittadino e in particolare milanese, la geografia e lo spazio giocano un ruolo decisivo. Ecco perché (ri)leggere oggi i suoi versi, in cui spesso si rivolge a qualcuno o qualcosa che non c’è, e in particolare ai morti


Vittorio Sereni, non c’è dubbio ormai, è uno dei più grandi poeti del Novecento italiano. È anche, a dispetto dell’apparentemente chiarezza di certi suoi testi, uno dei più difficili. Dietro la luce cristallina, il lessico semplice, le superfici trasparenti, c’è spesso un’opacità che nasconde una vertigine di senso, da cui si fa talvolta fatica a uscire. Questo è vero soprattutto per i suoi due ultimi (e più bei) libri, Gli strumenti umani e Stella variabile.

Non ci si può che rallegrare allora per l’uscita, finalmente, di una edizione commentata degli Strumenti umani, appena pubblicata da Fondazione Pietro Bembo e Guanda, a cura di Michel Cattaneo.

Il genere e la pratica del commento è, soprattutto per la poesia novecentesca, tristemente poco frequentato; se si eccettuano le edizioni commentate di EugenioMontale per Lo Specchio Mondadori, oltre a Sereni (Luino, 27 luglio 1913 – Milano, 10 febbraio 1983) si farebbe fatica a trovare altri casi. Ed è un peccato, perché se ne avrebbe sempre più bisogno per dispiegare il senso e la difficoltà della poesia novecentesca. E davvero fa (e bene) il suo lavoro Cattaneo, con un commento testo per testo che funge da perfetta guida per muoversi fra i vicoli e le salite degli Strumenti, soprattutto perché non si perde nella ridda dell’intertestualità (come tanta tradizione commentativa ha avuto e ha l’abitudine di fare, a somma noia di tanti e tante studenti di lettere), ma spiega le scelte formali di Sereni (senza trascurare nulla: sintassi, metro, retoriche, immagini) per arrivare a illuminare il senso (o i sensi) delle poesie di Sereni. O almeno a aprire delle strade di lettura, perché talvolta è quasi vano cercare di andare oltre l’immagine che la poesia propone (ma non per questo non vale la pena provarci): su cosa rappresentasse l’olmo malato, per esempio, in una nota poesia di Stella variabile, Sereni rispondeva così: “è un albero qualsiasi, visto in riva al fiume, che comincia a perdere le foglie; e le foglie, invece di diventare gialle, sono rosee… Cosa vista con i miei occhi, a Bocca di Magra. E Sembrano petali di fiori. C’è questo aspetto esteticamente affascinanti e in realtà l’albero sta morendo”.

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Cattaneo non si arrende, tuttavia, davanti all’albero qualsiasi, e riesce a farci leggere e apprezzare, una volta di più, tutta la difficoltà e l’estrema bellezza di questo libro.

Gli strumenti umani è il frutto di una lunga elaborazione, e viene pubblicato da Einaudi nel 1965, dopo quasi vent’anni di silenzio poetico, in cui Sereni sta facendo i conti con i suoi sensi di colpa per non aver vissuto in prima persona l’esperienza partigiana (era, in quegli anni, prigioniero in Algeria); e con il fatto che “se ne scrivono ancora”, di Versi s’intende (questo il titolo della poesia), nonostante tutto, nonostante si possano ormai solo scrivere “in negativo”; e si scrivono “per scrollare un peso / e passare al seguente. Ma c’è sempre qualche peso di troppo, non c’è mai / alcuni verso che basti” (La poesia non muta nulla, avrebbe detto Fortini in uno dei suoi testi più famosi, “Nulla è sicuro, ma scrivi”).

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Non a caso, lo notava già Eugenio Montale nella sua recensione agli Strumenti umani uscita sul Corriere della Sera il 24 ottobre 1965, Sereni è un poeta che “trova sempre più insopportabile la qualifica di poeta (e non è il solo a dirlo; ma il difficile comincia dopo, quando si è costretti a vivere sul rovescio della poesia, accettandone i rischi e le torture e la necessità di mimetizzarsi nel modus vivendi dell’uomo della strada).

Una poesia così fatta, che dovrebbe logicamente tendere al mutismo, è pur costretta a parlare”. In questo senso gli Strumenti sono un libro (anche) sulla prigionia dell’uomo, in un modo dove (come si legge nella poesia Il tempo provvisorio) “non vengono i saldatori”, dove “ritardano gli aggiustatori”, ma “non è disservizio cittadino, / è morto tempo da spalare al più presto”. E in questo stato, in questa prigione, tuttavia, pur si aprono degli spiragli.

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La città è senz’altro il luogo privilegiato degli Strumenti umani: “poeta di Luino” (così lo chiama laconicamente il narratore della Vita agra di Luciano Bianciardi), poeta lacustre, ma anche poeta cittadino e in particolare milanese: la geografia, lo spazio, hanno un ruolo fondamentale nella poesia di Sereni, quasi si fanno ulteriore personaggio.

Eppure all’altezza degli anni sessanta, Sereni, nonostante tutto, nonostante la Visita in fabbrica, nonostante “lo spazio / si copre di case popolari, di un altro / segregato squallore dentro le forme del vuoto”, nonostante le contraddizioni laceranti della vita urbana, non può essere – come la grande poesie moderna è stata, come la modernità stessa è stata, e basti rileggere le pagine di Simmel – che un poeta della metropoli (così si intitola, non a caso, una delle ultime poesie del libro): “… Pensare”  (scrive in Intervista  a un suicida) “cosa può essere – voi che fate / lamenti dal cuore delle città / sulle città senza cuore – / cosa può essere un uomo in un paese, / sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante / e dopo / dentro una polvere di archivi / nulla nessuno in nessun luogo mai”.

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In questa prigionia la voce di Sereni parla anche “per odio di qualcuno / o rabbia per qualcosa”, come l’Umberto Saba che cammina per le strade di Milano (nel ben ritratto in versi che Sereni gli dedica) “«Porca – vociferando – porca.» Lo guardava / stupefatta la gente. Lo diceva all’Italia. Di schianto, come a una donna / che ignara o no a morte ci ha ferito”.

Ma più spesso si rivolge a qualcuno o qualcosa che non c’è, e in particolare ai morti, che continuamente ritornano in questo libro, come ricordi, apparizioni, invocazioni, come il padre defunto de Il muro, con cui l’io parla “quasi in sogno a Luino / lungo il muro dei morti”.

Proprio su questa nota si chiude il libro, con La spiaggia, dove, come spiega Michel Cattaneo nel suo ottimo commento, “Una perentoria comunicazione telefonica sulla definitiva partenza degli amici dalla villeggiatura balneare viene implicitamente interpretata dall’io come un grave annuncio della loro morte.” E in questo finale, nonostante tutto, il silenzio si volge in attesa della parola: “Non / dubitare – m’investe della sua forza il mare – / parleranno”.

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Fonte: www.illibraio.it


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