Tre amici raccontano la nuova India: dagli anni universitari alla loro vita adulta, offrendo tre sguardi ben distinti sulle ambizioni, le paure, le tentazioni, i vizi, i successi e i fallimenti della prima generazione indiana portata a confrontarsi ben più da vicino con il modello occidentale. Pankaj Mishra torna in libreria con "Figli della nuova India", un romanzo con personaggi mai davvero pacificati, portati a sperimentare i cambiamenti in atto, alla ricerca di una nuova identità...
Cosa significa essere figli della nuova India? Se lo chiede Pankaj Mishra, scrittore, saggista e politico nato in India nel 1969. Prova a rispondere con un’opera provocatoria che, in libreria per Guanda con la traduzione di Maria Federica Oddera, esplora essenzialmente la vita di tre amici, dalla loro giovinezza all’età adulta.
Aseem, Arun e Virendra si sono incontrati negli anni ’80 all’IIT (Indian Institute of Technology), dove viene offerta una grande occasione agli studenti: istruirsi per trovare poi lavoro all’estero, riscattandosi sia socialmente sia economicamente attraverso la cultura.
Aseem, fin dal principio, ha grandi slanci verso la modernità: è libero dal bigottismo e dalle ipocrisie; spesso porta avanti le sue convinzioni politiche con aggressività e ha un’idea piuttosto romantica per il suo futuro. Infatti, anziché diventare ingegnere, come vorrebbero i suoi studi, sogna di diventare un artista, di scrivere un libro. È per questo che legge romanzi delle grandi letterature mondiali, da cui prende spunto per presentare ai suoi amici “personaggi venuti dal nulla, costretti a farsi strada, a conquistare dignità, stabilità e amore” (p. 61). Insomma, personaggi che assomigliano maledettamente a loro.
Viceversa, Virendra proviene da una casta bassa, come attesta il suo cognome, e subisce molte umiliazioni da parte di alcuni compagni dell’IIT. Le vessazioni avvengono in nome di chissà quale goliardia; altro non sono che terribili prepotenze per rimarcare, anche lì dentro, le differenze di casta. Se questo getta nella disperazione altri suoi coetanei, Virendra non demorde e passa la maggior parte del tempo a testa bassa sui libri, convinto che solo così potrà davvero conquistarsi un futuro degno.
Arun, voce narrante della storia, nella prima parte del romanzo è soprattutto un grande osservatore: partecipa suo malgrado alla vita dell’IIT, constata che anche lì purtroppo tutti hanno un proprio ruolo (“nessuno di noi poteva anche solo sperare di sfuggire al ruolo che ci era stato assegnato nella gerarchia sociale”, p. 19). Ognuno dei protagonisti arriva da realtà sociali diverse e quella di Arun ci viene presentata più da vicino attraverso i suoi ricordi o attraverso le libere uscite che lo riportano a casa. La sua famiglia vive all’insegna della miseria e anche noi lettori scopriamo come comodità date ormai per scontate siano in realtà un vero e proprio lusso per Arun: a casa sua manca l’acqua corrente, con conseguenti problemi di igiene personale; i mezzi di trasporto nel villaggio sono quasi assenti; le uniche latrine sono all’aria aperta; l’istruzione resta prettamente maschile;…
Finiti gli studi, accade qualcosa di memorabile: la generazione di Arun e degli amici è la prima a confrontarsi con il modello offerto dall’Occidente e a essere esposta al culto di sé. La scelta a cui sono esposti non è scevra di pericoli: “per troppi uomini come noi essere liberi ha significato profanare gli ideali e i valori che guidano la maggior parte delle vite umane” (p. 25). E il miraggio di poter veramente cambiare porta a mettere in dubbio qualsiasi cosa.
Se Aseem e Virendra sembrano effettivamente svoltare in pochi anni, proprio come prometteva l’IIT, Arun invece non porta avanti i suoi progetti iniziali e rifugge o perlomeno rimanda a data da destinarsi l’invito di Aseem: “Dovresti proprio scrivere un libro di memorie” (p. 140).
Arun compie una scelta decisamente contro corrente: si ritira con la madre in campagna, a Ranipur, sfuggendo almeno temporaneamente all’abbaglio del progresso. Lì i cambiamenti non sono ancora arrivati e può vantare una sorta di tranquillità per dedicarsi ai suoi lavori di traduzione:
La mia vocazione era quella del lettore, di chi origlia il passato, di chi scopre come vivevano e cosa provavano le persone di società remote, di chi raggiunge uno stato di ricettività in cui le loro gioie e le loro sofferenze entrano in contatto con il suo animo e la sua mente; e la stessa curiosità mi era utile come traduttore per trovare lo stile espressivo ideale per esprimere una prosa già pronta. (p. 140)
La quotidianità prevedibile di Arun si rompe quando viene intervistato da Alia, brillante figura di intellettuale, moderna e disinibita, politicamente e socialmente schierata, che sembra aver rinunciato in parte le sue origini. La donna vuole scrivere un libro su chi è uscito dall’IIT: Aseem e Virendra sono tra gli altri nomi che figureranno nell’opera. È proprio Alia l’interlocutrice a cui si rivolge Arun nel corso della narrazione. Per Arun questa è l’occasione per tornare a ripensare agli amici, sentiti e visti ormai solo saltuariamente, per rincontrarli e per misurarsi con un loro stile di vita ben diverso. D’altra parte, anche il presente è ben diverso dagli anni Ottanta. L’India sta cambiando, e i rischi dell’ambizione sono dietro l’angolo:
Ignari dell’esistenza di stili di vita diversi in altri luoghi, si erano adattati per lungo tempo alla loro relativa povertà. Ora invece accarezzavano la speranza troppo ambiziosa di inserirsi in un mondo evidentemente avviato verso la ricchezza. E la conseguenza principale di questa ambizione era la perdita dell’immunità a certe devastanti umiliazioni garantita in passato dall’isolamento. (p. 155)
Questa, almeno, è la visione pessimistica di Arun, mentre Aseem e Virendra sembrano godere delle tante avventure sessuali (in cui domina una visione maschilista ed egoistica del rapporto) e dei soldi accumulati. Arun, Aseem e Virendra si osservano, si studiano e, sotto sotto, si giudicano, ma in fondo “è meglio non sapere cosa pensano veramente di noi i nostri amici” (p. 334). Anche Alia, in ogni caso, ha rinunciato alla tradizione: è emancipata e lontana dai valori indiani; viceversa, ha abbracciato molte delle cause internazionali, si tiene costantemente informata, quasi ossessivamente, su quanto accade nel mondo e prende parte alle vicende scrivendo la sua, sui giornali tanto quanto sui social. Insomma, è ormai una figura pubblica. Diversissima dalle donne a Ranipur e molto carismatica, Alia rappresenta non solo la possibilità di un futuro alternativo per Arun, ma anche la via per uscire dall’India. Ma è positiva questa svolta?
Niente, in ogni caso, è definitivo: Pankaj Mishra non ci presenta personaggi pacificati; al contrario, Arun e gli altri rappresentano una generazione priva di punti fissi e lo vediamo quando cercano di distinguersi dagli altri o anche solo di conquistarsi un posto in questa nuova India, ancora così poco chiara e definita. Il loro è un mondo in cui tutti i capisaldi si sono fatti pericolanti:
Cresciuti in un contesto esistenziale povero di senso, ci eravamo convinti che esistessero modi di vivere significativi e che noi li avremmo trovati. In realtà, per cercarli ci limitavamo a correre qua e là, incerti sulla nostra destinazione, voltandoci continuamente indietro con aria interrogativa. (p. 146)
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Fonte: www.illibraio.it