È una sera di fine estate. Nella città post-industriale di East Gladness, in Connecticut, il diciannovenne Hai, disilluso e tradito dal sogno americano, ha preso una decisione: sotto la pioggia battente, in piedi sul bordo di un ponte, è pronto a saltare. Improvvisamente, una voce dall’altra parte del fiume lo immobilizza. È Grazina, un’anziana vedova immigrata dalla Lituania, sopravvissuta alla Seconda guerra mondiale, che lo convince a scendere di lì e lo porta a casa con sé. Hai, smarrito e consumato dalle troppe bugie dette a sua madre, non ha un posto dove tornare e accetta di trasferirsi da lei. In pochi mesi, l’improbabile coppia sviluppa un legame che cambia radicalmente la vita di entrambi. Nasce un affetto profondo, fatto di cura, di condivisione del trauma della guerra che ancora abita le notti di Grazina, e del comune destino di stranieri. Hai comincia a costruirsi un futuro, prova a darsi una seconda possibilità che lo porterà a vedere in una luce nuova il rapporto con se stesso e con la sua nuova famiglia, e a “cercare di essere una brava persona, senza pretendere chissà cosa”, perché – come gli insegna Grazina – “questa è la cosa più difficile di tutte”.
Con L’imperatore della gioia Ocean Vuong si afferma come l’autore del grande romanzo americano, riscritto da chi vive ai margini e cerca la salvezza in un nuovo mito, non più fondato sul successo, ma sul coraggio di essere normali, sulla compassione e sulla solidarietà.
Un libro molto commovente... La tenerezza della prosa è un trionfo contro un mondo che sembra determinato a distruggere qualsiasi forma di sensibilità. Le verità che riesce a comunicare hanno tanto più valore perché nascono dalle emozioni.
Una storia poetica, drammatica e vivida. Ha un respiro epico, ma sa raccontare l'intimità e l'amore con delicatezza e originalità. Vuong prende i suoi protagonisti dai margini della società americana e con genialità, inventiva e profonda empatia li trasporta al centro del nostro mondo.
Un romanzo che spezza il cuore senza mai cedere al sentimentalismo, e al tempo stesso riesce a essere selvaggiamente ironico.
Un Huckleberry Finn per il Ventunesimo secolo.
Una scrittura tra le più belle che io abbia mai incontrato nella mia vita di lettrice.
Le persone non lo sanno, che cosa è abbastanza. È questo il problema. Pensano di soffrire, ma in realtà sono solo annoiate. Non mangiano abbastanza carote
Ma dove stava andando? Stava andando in un luogo dove la libertà viene promessa ma è resa possibile solo attraverso uno spazio spersonalizzante delimitato da mura e serrature, un luogo dove un nutrimento accuratamente ponderato viene distribuito ogni giorno attraverso lunghi corridoi da lavoratori nati in uno smisurato altrove, che rinunciano a veder crescere i propri figli per veder invecchiare degli sconosciuti, al solo scopo di tenerti in vita in modo che qualcuno possa risucchiare soldi dal tuo conto corrente mentre sei al caldo, paralizzato dai tranquillanti, sazio e inebetito, un corpo maturo per il raccolto anche ben oltre la maturazione. Dopotutto, il luogo dove la stavano portando era davvero l'America. L'America nella sua versione più autentica. Il luogo dove tutti vogliono andare, costi quel che costi.
Il superpotere dell'essere giovani consiste nel fatto che sei più vicino al non essere nulla - e quando sei molto vecchio è la stessa cosa.
Quando le attraversi di notte, le vecchie cittadine del Connecticut ti trasmettono una sensazione particolare. Svuotate, devastate eppure immerse nella quiete che segue la tempesta, toccate da un'inspiegabile bellezza, come se il paesaggio circostante fosse all'improvviso diventato un enorme soggiorno. E senti che ti potresti sedere sotto la schietta luce di un lampione e nessuno ti disturberebbe, nessuno ti direbbe di andartene, perché tutti sanno che se te ne stai lì un motivo c'è. Che sei costretto a farlo dai debiti, dal sangue o dal sudore.
Con lui, disse, non è che fossi felice - però era tutto okay. E sentire che era tutto okay era anche meglio che essere felice, perché pensavo potesse durare di più.