Si respira aria di melodramma in questo romanzo che, tra Storia e invenzione, riporta in vita passioni e intrighi del Rinascimento italiano e una straordinaria figura femminile a lungo dimenticata. Siamo a Lucca, città dalle cento torri e dalle cento chiese, dai bastioni possenti, ricchissima e spietata, devota e ribelle, fiera della sua indipendenza. Nel 1515, proprio a Lucca, nasce una donna simile alla sua città, orgogliosa e non domata, condannata a una vita controcorrente dal suo stesso essere donna e da un precoce talento poetico. Figlia di mercanti che esportano le loro finissime stoffe in tutta Europa, Chiara Matraini non è nobile né cortigiana, le sole condizioni che le permetterebbero un riconoscimento pubblico. Nel suo destino c’è un futuro di moglie e madre con un’oscura vita tra le mura di un palazzo. Invece Chiara, forte degli studi che i genitori le hanno consentito, decide di diventare una letterata, di più, una poetessa, pubblicando con il suo nome un volume di Rime che ottiene molti consensi. Una scelta che paga duramente, senza smettere mai di lottare, per amore del figlio, della poesia e dell’uomo a cui si lega dopo la morte del marito, suscitando scandalo. Attorno a lei, un mondo in rapido cambiamento, tra la scoperta di terre fino ad allora sconosciute, la finanza nascente, le inquietudini artistiche, le guerre di dominio e gli aspri conflitti religiosi.
Non ha mai tradito se stessa. Sa che l’opera in versi che ha costruito con tanta fatica verrà dimenticata, non più delle illeggibili lapidi nei cimiteri. E poi chissà, forse qualcuno un giorno tornerà a leggere i suoi sonetti, le sue canzoni, i madrigali, le lettere, i dialoghi spirituali, e si porrà domande su di lei, su ciò che d’irrisolto è stata la sua esistenza. Qualcuno darà un senso a quello che continua ad apparirle confuso.
La disperazione, il male subìto, l’amore goduto si sarebbero volti in metamorfosi e in mito, per raccontare attraverso quel filtro ciò che alla fine contava, l’onore, la memoria, l’oblio, la pietà.
C’era chi la adorava, molti non l’amavano affatto, le donne per il suo coraggio che scambiavano per arroganza, gli uomini per la sua intelligenza e il suo talento, le une e gli altri per la sua singolarità che era diventata ogni giorno più visibile. Il pericolo di una diversità.
Chiara disponeva le parole e i versi in poesie, e poi li organizzava in un « continuo » di temi intrecciati, l’incontro con l’amore, il trionfo della luce, la cesura della morte, la lontananza, l’oscurità, il gelo della consapevolezza, il ricordo gioioso e dolente, e infine la loro trasfigurazione, quasi una salvezza. Per lei le sue rime non erano mai state ozi letterari, svaghi di una donna colta. Solo la poesia, lo sentiva, aveva la forza di penetrarla, questa vita felice e amara, di scardinarla andando oltre la linea della superficie, oltre il confine del dentro e del fuori, dell’uno e dell’altro mondo.