Non è facile sopravvivere a Madrid, negli anni terribili della «normalizzazione franchista» che fa seguito alla Guerra civile. Sono tempi di fame e di terrore, soprattutto per Manolita, che a sedici anni si trova a farsi carico delle sorelle e dei fratelli più piccoli, dopo che il padre e la matrigna vengono incarcerati e il fratello maggiore è costretto a nascondersi a causa della sua militanza comunista. Manolita non ha mai voluto sapere nulla di politica, e per questo gli amici del fratello l’hanno soprannominata signorina «Non contate su di me». Eppure adesso hanno bisogno di lei per tenere viva una speranza di resistenza, legata alla possibilità di stampare e diffondere materiale di propaganda. Dagli esuli spagnoli in Messico sono stati inviati dei misteriosi ciclostili, macchine che però nessuno riesce a far funzionare: a Manolita viene affidato il compito di far visita a un detenuto che è forse l’unico in grado di svelarne i segreti. Quel ragazzo timido e apparentemente privo di fascino sarà determinante nella sua vita, e al primo incontro con Silverio ne seguiranno molti altri, mentre nelle lunghe attese fuori dal carcere Manolita scoprirà tante sofferenze e tante attestazioni di solidarietà. Una grande storia di amore e di coraggio traboccante anche di passione civile e politica, in cui ancora una volta Almudena Grandes riesce a far convivere verità storica e verità narrativa. «Una miscela di letteratura in stato di grazia, I tre matrimoni di Manolita riconferma la maestria di Almudena Grandes nel dominare tutti i registri del romanzo.» El País
Una miscela di letteratura in stato di grazia... I tre matrimoni di Manolita riconferma la maestria di Almudena Grandes nel dominare tutti i registri del romanzo. Il ritmo ineludibile, la pausa necessaria, e una scrittura che affronta tutte le sfide della trama.
Nei tempi buoni, le ragazze si sposano per amore. In quelli cattivi, molte lo fanno per interesse. Io mi sposai con un detenuto nei tempi peggiori che si possano immaginare, e per colpa di due ciclostili che nessuno sapeva far funzionare.
Con loro avevo imparato che rinunciare alla felicità era peggio che morire, e che l'anelito, il desiderio, la speranza di un futuro migliore, anche se ridotto a quello che restava tra una condanna a morte e una a trent'anni di prigione, era possibile, era buono e legittimo, era dignitoso, ammirevole, persino in quella succursale dell'inferno dove avevo fatto la coda tutti i lunedì della migliore estate della mia vita.