C’è una donna in questa storia che, di fronte alla figlia appena nata, ha una sola certezza: da ora non potrà mai più permettersi di impazzire. La follia nella sua famiglia non è solo un pensiero astratto ma ha un nome, e quel nome è Venera. Una bisnonna che ha sempre avuto un posto speciale nei suoi sogni. Ma chi era Venera? Qual è stato l’evento che l’ha portata a varcare la soglia del Mandalari, il manicomio di Messina, in un giorno di marzo? Per scoprirlo, è fondamentale interrogare la Mitologia Familiare, che però forse mente, forse sbaglia, trasfigura ogni episodio con dettagli inattendibili.
Questa non è solo una storia di donne, ma anche di uomini. Di padri che hanno spalle larghe e braccia lunghe, buone per lanciare granate in guerra. Di padri che possono spaventarsi, fuggire, perdersi.
Per raccontare le donne e gli uomini di questa famiglia, le loro cadute e il loro ostinato coraggio, non resta altro che accettare la sfida: non basta sognare il passato, bisogna andarselo a prendere. Ritornare a Messina, ritornare fra le mura dove Venera è stata internata e cercare un varco fra le memorie (o le bugie?) tramandate, fra l’invenzione e la realtà, fra i responsi della psichiatria e quelli dei racconti familiari.
Nadia Terranova ci consegna con queste pagine il suo romanzo più personale e più intenso, che ci interroga sul potere della memoria, individuale e collettiva, e sulla nostra capacità di attraversarla per immaginare chi siamo.
Ed è questa la bellezza del romanzo, un prisma che gira e nel quale chi vi viene riflesso sussume un po' della follia del mondo.
"Quello che so di te" ci mostra che non sappiamo mai niente, di noi stessi, degli altri, dei nostri sogni o incubi.
La prosa possiede qualcosa di eccitato, una tensione sottile: una scossa elettrica percorre l'intero racconto.
Questo è un «romanzo di vita» affidato a una scrittura che si trova spesso a incrociare la variazione riflessiva su aspetti medici legati alla follia con la corposa fisicità propria dell'universo materno.
Una storia di silenzi e di mistero. Una ricerca ostinata. E una scrittrice che usa l'autobiografia per sabotare la verità.
Un'indagine tra costellazioni famigliari, dove la verità è impossibile da trovare ma doverosa da cercare.
Nadia Terranova con una intenzione limpida, una ossessione studiosa, un italiano potente ed evocativo, trasforma lo stigma della pazzia che da Venera scende fino alla bambina in una macchia sul viso.
Una storia privata che parla di salute mentale e patriarcato, intrecciando costellazioni famigliari e interrogativi sulla maternità.
Ogni cosa qui obbedisce alla tirannia dell'io che vuole sapere, vuole capire e non si dà pace finché non ha sgombrato il campo di tutti i macigni del passato, che gli impediscono di vivere la libertà.
Se tutto quello che ami scomparisse, sapresti ancora chi sei?
Lasciateci libere di non farcela, né come madri né come artiste. Lasciateci sperimentare il fallimento, lasciate che ci concentriamo sull'unica cosa che importa: non cadere, o cadere senza uccidere chi amiamo. Lasciateci ovunque fallire in pace.
Forse è qui che comincia la storia: mia madre mi inganna, io muoio, lei risorge, Venera sorride. Comincia con un gruppo di donne che per uscire dall'ombra sono costrette a rubarsi la vita fra loro.
Scrivere è creare un incantesimo: se lo scrivo, accade. Scrivere è spezzare un incantesimo: se lo scrivo, non accade più. È cercare un varco tra le versioni di chi ti commenta, tra mia madre che legge i miei libri e li sconfessa: non è vero che accade così, te lo sei inventato, e mio marito che incalza: forza, inventalo meglio, inventalo di più… quando scrivo i suoi occhi cambiano trasformando a ogni pagina le poche cose che io so di lei, le molte cose che lei sa di me.
Rimpallarsi una menzogna fino a renderla vera: ecco una buona definizione di amore.
La incontro spesso in sogno, la mia bisnonna: una donna minuta e silenziosa sulla soglia di un manicomio che sarebbe diventato un esilio, un luogo di cui avrebbe parlato con un distacco sempre più irreale fino a non nominarlo più, come accade ai ricordi che abbiamo sciupato. Il nome con cui la chiamo è Venera, l'accento sulla prima sillaba e la a finale, come una dea o un pianeta che hanno deciso di barare e cambiare le carte sulla tavola.
Mi sporgo verso la culla, guardo giù dentro il cratere. In quel momento, dentro quel preciso nulla, capisco cosa non potrò mai più permettermi di fare. Impazzire.